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L’OSSERVAZIONE DEL GIOCO PSICOMOTORIO A SCUOLA
Franca Giovanardi e Mara Tagliavini
La ricerca sul tipo di osservazione da utilizzare con i bambini in Pratica
Psicomotoria ha preso l’avvio dalla riflessione sui principi teorici
e i riferimenti epistemologici della stessa. Non è stato semplice
individuarli; la difficoltà è collegabile a nostro avviso
anche al fatto che la Psicomotricità, disciplina storicamente giovane,
è nata dall’incontro tra discipline diverse, quindi, come
sempre accade quando si apre un nuovo terreno di ricerca, gli orientamenti
sono molteplici e non sempre concordanti tra loro.
Da molti anni noi psicomotricisti ricerchiamo le connessioni, lavoro che
continua tuttora e che riteniamo particolarmente utile non solo per la
ricerca epistemologica ma anche per l’oggetto di studio della psicomotricità,
e cioè la globalità della persona considerata nella sua
interezza; ricerca che muove dai riferimenti teorici generali alla situazione
pratica del qui ed ora dell’osservazione. La Psicomotricità
ha preso su di sé il compito, un po’ ambizioso, di riunificare
ciò che la scienza aveva frammentato e diviso, ponendosi l’obiettivo
di connettere la corporeità, l’affettività, l’intelligenza
e la socialità della persona; aspetti che erano e sono in gran
parte ancora oggi domini separati di discipline diverse.
La metodologia che utilizziamo ha le caratteristiche dell’osservazione
diretta e partecipante. Infatti avviene alla presenza del bambino con
cui si interagisce; si tratta quindi di un’osservazione interattiva.
Prima di parlare di cosa osservare è necessario riflettere sul
come osservare, perché l’osservazione diretta e partecipante
non indica soltanto la partecipazione a livello dell’agire ma anche
una disposizione emotiva interiore di ricettività, di ascolto di
tutto ciò che proviene dall’altro; si tratta di fare posto
dentro di sé all’oggetto, di accoglierlo e contenerlo.
Ricettività è un’attitudine simile alla capacità
di rêverie di cui parla Bion a proposito della madre, la capacità
di avere una relazione profonda col bambino, accettandone le identificazioni
proiettive, indipendentemente dal fatto che il bambino le avverta come
buone o cattive.
Ricettività intesa come capacità di silenzio e di ascolto,
come spazio per accogliere e contenere l’oggetto osservato nella
sua interezza, sfuggendo uno dei rischi maggiori dell’osservazione,
che è quello di vedere soltanto delle parti, dei settori, e non
la persona tutta intera, nella sua unità.
Abbiamo scelto un tipo di osservazione con queste caratteristiche perché
ci sembra particolarmente coerente con i principi di fondo della Pratica
Psicomotoria che fanno riferimento proprio ai concetti di unità
e globalità della persona. Questo non deve far pensare che si rimanga
in una situazione indistinta, è infatti necessario saper analizzare
e sintetizzare, ma sempre con l’attenzione rivolta alla totalità
della persona e non solo, ad esempio, alle sue competenze.
Osservare da questa prospettiva presuppone la disposizione ad osservare
con tutta la nostra persona, quindi non solo con le nostre conoscenze,
ma disponibili all’incontro con l’altro anche a livello tonico
ed emozionale; questa è una caratteristica peculiare della psicomotricità
che la differenzia da altre discipline.
Non a caso in Pratica Psicomotoria si parla di risonanza tonico emozionale,
proprio a significare la messa in gioco dell’adulto nella relazione
col bambino, alla ricerca continua della cosiddetta giusta distanza, che
sta ad indicare un movimento interno di avvicinamento e allontanamento
emotivo, che permetta di cogliere quegli aspetti di molteplicità
peculiari dell’incontro con l’altro.
Possiamo forse dire che è privilegio dello psicomotricista poter
tradurre questo concetto anche a livello corporeo, in quel gioco di aggiustamento
tonico, posturale e spaziale con il bambino, che caratterizza la nostra
attività e in particolare la nostra modalità di relazione.
Per gli educatori di asilo nido e gli insegnanti di scuola dell’infanzia
si tratta di sviluppare la capacità di cogliere il processo evolutivo
del bambino, la sua spinta a crescere, per potersi alleare con le parti
del mondo interno disposte a maturare, elaborando quella funzione di contenitore
dei bisogni e della comunicazione, così utile nei contesti in cui
si sviluppano relazioni interpersonali. Si tratta inoltre di garantire
al bambino un suo spazio d’azione.
Uno dei quesiti più frequenti che vengono sollevati a proposito
dell’osservazione riguarda la questione dell’oggettività.
Pensiamo che chi osserva non sia e non possa essere un registratore indifferente
agli eventi, ma una persona dotata di emozioni, sentimenti, conoscenze
che necessariamente entrano a far parte dell’esperienza osservativa,
la quale avviene tramite attività di percezione, intuizione, introspezione.
Chi osserva dovrebbe essere consapevole che la sua soggettività
costituisce il sottofondo della percezione dell’oggetto, ma non
può per questo, se vuole conoscerlo, ridurre l’oggetto a
sé, annetterlo ai suoi desideri o a ciò che vorrebbe che
esso fosse. La comunicazione tra insegnante e bambino avviene a livello
conscio ma anche a livello inconscio e sappiamo che quest’ultimo
può suscitare una certa dose di angoscia.
Come argomenta Devereux, l’obiettivo da porsi non è quello
di eliminarla mettendo in atto numerosi e sofisticati meccanismi difensivi,
ma quello di utilizzare anche il nostro mondo interno per procedere nel
cammino verso la conoscenza e l’incontro con l’altro. La soggettività
di chi osserva non è dunque un fastidioso contrattempo di cui disfarsi,
qualcosa da negare, in quanto “l’osservatore può osservare
l’altro solo osservando se stesso. Anzi, solo se osserva in un certo
modo se stesso, vede l’altro”.
L’osservazione si attua in modi diversi secondo gli scopi e in
base al contesto.
Relativamente agli scopi, che pensiamo possano essere comuni a tutti,
distinguiamo un’osservazione iniziale e un’osservazione in
itinere. Nel primo caso osserviamo un bambino che vediamo per la prima
volta all’interno di un gruppo di bambini. L’osservazione
iniziale , oltre a fornirci elementi di conoscenza del mondo interno del
bambino, ci permette anche di intravvedere le sue possibilità di
evoluzione. Ci permette infine di fare un progetto di lavoro per quel
bambino, corrispondente ai suoi bisogni.
L’osservazione in itinere è invece un processo che continua
per l’intero anno scolastico e permette all’educatore di modulare
costantemente il suo intervento, aggiustandolo in funzione del percorso
e dell’evoluzione del bambino stesso. L’attività di
osservazione in itinere è quindi parte integrante dell’agire
dell’insegnante perché gli permette di riformulare costantemente
il suo progetto.
Per l’insegnante può avere un senso anche ascoltare la “storia”
del bambino narrata da altri prima di cominciare l’attività
scolastica. Conoscere la sua storia infatti, può essere di aiuto
nel predisporre quanto è necessario per accoglierlo nei primi giorni.
Il “racconto” del bambino che proviene dai genitori, dagli
educatori o da chi comunque lo conosce (psicologo, logopedista, ecc),
può essere utile, soprattutto se c’è molta attenzione
a non lasciarsi prendere dalle immagini che altri ci offrono. Sono le
loro immagini, è la loro narrazione, è quello che altri
vedono della sua storia. Non si tratta quindi di sostituire ma di connettere
il racconto di altri con le nostre osservazioni.
Il bambino e i genitori vengono di solito accolti nell’atrio, uno spazio sul quale soffermarsi, che riteniamo piuttosto importante e che fa già parte del processo di osservazione. L’atrio infatti è lo spazio d’accesso a luoghi interni, è lo spazio intermedio tra la sezione e l’esterno, tra il dentro e il fuori; è luogo di conoscenza, di incontro, di attesa, di preparazione, luogo di intimità (il bambino si spoglia e si riveste) e, soprattutto, luogo di saluti. Nell’atrio si possono fare molte osservazioni sulle modalità con cui avviene la separazione tra bambini e genitori e il ricongiungimento fra loro a fine giornata.
L’osservazione vera e propria avviene all’interno della sezione
o degli spazi, anche esterni, del nido e della scuola materna, spazi pensati
per il bambino, in cui egli possa esprimersi in un’area di sicurezza.
Per poter osservare il gioco psicomotorio del bambino sarebbe utile che
nella scuola o nella sezione fosse allestito uno spazio adatto, abbastanza
ampio e luminoso, con un pavimento “caldo” su cui i bambini
possano stare anche a piedi nudi, con un grande specchio a parete. Gli
arredi potrebbero prevedere una piccola struttura per arrampicarsi, scivolare
e saltare, materassi e cuscini di varie dimensioni e colori, oggetti che
si prestano a molte possibilità di gioco: gioco sensomotorio, presimbolico
e simbolico.
Lo spazio che accoglie il bambino non dovrebbe essere uno sfondo neutro
ma significante. E’ importante che gli arredi e gli oggetti siano
organizzati in modo tale da far sì che il bambino percepisca subito
che il luogo è per lui, che ha la possibilità di scegliere
dove andare, cosa fare. Lo spazio viene investito di senso, “semantizzato”
dall’azione del bambino. Giocando spontaneamente infatti il bambino
entra in contatto con i suoi desideri più profondi: mette in scena
la sua storia affettiva nel qui ed ora di una storia di cui è protagonista.
Possiamo pensare infatti che le origini dell’immaginario e della
capacità di simbolizzare siano corporee e provengano dalle esperienze
più antiche del bambino, dall’alternanza di vissuti di piacere
e di non-piacere, di benessere e malessere che il bambino ha vissuto nel
rapporto con la madre.
Osservando come il bambino organizza i suoi giochi possiamo pensare a
quali sono le immagini, i ricordi che ci stanno dietro.
L’osservazione del gioco psicomotorio del bambino si basa su parametri precisi che si rifanno alle categorie tipiche della comunicazione non verbale, si riferiscono a relazioni: la relazione del bambino con lo spazio, il tempo, gli oggetti e gli altri. Il bambino, soggetto delle relazioni, viene osservato nella sua espressività motoria, cioè nel modo tutto originale che ha di essere al mondo, di essere se stesso, di esprimere ciò che sta vivendo nel qui ed ora e allo stesso tempo di raccontare la sua storia arcaica.
(Articolo pubblicato su I Quaderni del Gioco Psicomotorio, vol. II, a
cura di Fabiola Crudeli - Forlimpopoli)
NOTE SULL'EVOLUZIONE DEL CONCETTO DI PSICOMOTRICITA'
Il termine psicomotricità è un neologismo che assume il
suo pieno significato solo in tempi che si possono definire storicamente
recenti. La psicomotricità infatti è giovane. La prima apparizione
del termine in forma aggettivata, cioè il termine "psicomotorio",
si fa risalire intorno al 1870 per dare un nome a delle regioni della
corteccia cerebrale vicine alle aree propriamente definite motorie, laddove
si ipotizzava avvenisse l'unione, ancora piuttosto misteriosa, tra il
movimento e l'immagine mentale.
In seguito il termine "psicomotorio" vide crescere la sua fortuna
soltanto intorno al 1900 quando Tissié enunciò la sua concezione
di educazione fisica collegandola a quei concetti che erano stati scoperti
in precedenza. Tissié avviò i suoi studi e le sue ricerche
partendo da una critica alla ginnastica che veniva proposta alla fine
del 1800, seguendo un progetto educativo che a quei tempi volle il suo
governo e che era realizzato da un colonnello.
E' facile immaginare anche di quale ginnastica si trattasse: era assolutamente
finalizzata all'irrobustimento muscolare, alla prestanza fisica, alla
forza e alla formazione del carattere e utilizzava un metodo che era definito
con due aggettivi: "atletico e acrobatico". Tissié a
quel tempo, ebbe il grande merito di affermare la necessità di
abbandonare questo modello di educazione fisica, di tipo militare, per
seguirne uno più scientifico. Il suo progetto pedagogico si fondava
sul principio del rapporto intimo che esiste tra pensiero e movimento,
per effetto dei legami che uniscono cervello e muscoli.
Nella prima metà del '900 Guilmain trasferì sul piano educativo
le idee di Dupré e Wallon, relativamente alle concordanze che esistono
tra motricità e intelligenza e motricità e carattere.
Già da allora Guilmain ideò un vero e proprio metodo rieducativo,
i cui obiettivi erano di rieducare l'attività tonica, cioè
l'attività del tono muscolare, quindi le posture, l'equilibrio,
la mimica facciale. Uno dei principi su cui si basava questo metodo era
stimolare l'attività di relazione tramite il gioco.
Questa era la grande novità: nessuno ancora aveva mai pensato a
far ginnastica per stimolare delle relazioni, per poi sviluppare la padronanza
motoria. Il suo metodo oggi è criticabile ma resta comunque il
primo modello di intervento determinato, con obiettivi e finalità
specifici.
Nel periodo tra il secondo dopoguerra e i primi anni '70 un notevolissimo
impulso alle pratiche psicomotorie venne dato da un grande neuropsichiatra:
Julien de Ajuriaguerra, soprattutto in ambito terapeutico. Il suo "Manuale
di psichiatria del bambino" un testo validissimo ancor oggi, è
un'opera teorico - metodologica che costituisce la prima "carta"
della psicomotricità o più propriamente della "terapia
psicomotoria". In quest'opera Ajuriaguerra sostiene che la sindrome
psicomotoria non va considerata in corrispondenza ad una lesione cerebrale
ma legata, ecco la grande novità, all'affettività e al soma
allo stesso tempo. Quindi Ajuriaguerra, proclama già l'unità
psicosomatica prendendo in esame la persona tutta intera, nella sua completezza
di psiche e corpo. Afferma inoltre che la strutturazione del movimento
e della tonicità avvengono attraverso rapporti molteplici con implicazioni
senso-percettive e affettive, insistendo inoltre sul ruolo della funzione
tonica e motoria nelle attività di relazione.
Dal 1970 ad oggi, in questo breve ma fondamentale periodo per la psicomotricità,
si assiste ad un ampliamento dei riferimenti scientifico - culturali che
stanno alla base di questa disciplina. La teoria psicomotoria fa sempre
più riferimento alla psicologia, alla psicoanalisi, all'etologia
e ai numerosissimi studi sulla comunicazione non verbale. Questo interesse
crescente verso altre discipline fa sì che la psicomotricità
integri apporti provenienti da quelle stesse discipline. In questo periodo
nascono, si rafforzano e si definiscono molte pratiche psicomotorie educative.
La Francia è la culla della psicomotricità. In Francia
la psicomotricità si è espressa attraverso diverse "scuole",
come quella di Aucouturier, Lapierre, Vayer, Le Boulch, per citarne alcune.
Bernard Aucouturier e André Lapierre - che hanno lavorato e scritto
insieme negli anni "70 e che da molto tempo lavorano autonomamente, hanno
dato origine a due diverse scuole psicomotorie, le più note e le
più introdotte anche in Italia. Bernard Aucouturier ha ideato la
"Pratica"Psicomotoria"i cui fondamenti teorico-pratici
sono esplicitati nel suo testo di recente pubblicazione "Il metodo Aucouturier
– Fantasmi d'azione e Pratica Psicomotoria"
Per quanto riguarda un approfondimento del pensiero di Lapierre si rinvia
alla lettura del testo "Dalla Psicomotricità relazionale all'analisi
corporea della relazione"
La iniziale concezione psicomotoria di questi due importanti Autori parte
da un corpo organico e meccanico composto di ossa, muscoli, leve ossee,
al quale si chiede soltanto un funzionamento corretto e un rendimento
fisico ottimale. Era il concetto di base dell'educazione fisica e sportiva
e, soprattutto, purtroppo, della concezione medica.
Il corpo anatomico, dicevamo; su questa meccanica corporea si agiva con
mezzi altrettanto meccanici. Questo modo di pensare viene spinto fino
al limite da certe costruzioni razionali della ginnastica correttiva e
ortopedica. E' stato lavorando proprio in quel campo che Aucouturier e
Lapierre si sono resi conto che la meccanica umana aveva anche altre dimensioni,
se non altro quella neuromotoria. Approfondendo le loro conoscenze nel
settore della neuromotricità hanno scoperto per esempio l'importanza
dei centri sottocorticali.
Lo spirito, la coscienza, cominciavano a perdere la loro onnipotenza sul
corpo. Questo corpo aveva una sua organizzazione che interveniva e interagiva
in modo importante con tutto il resto. Uno studio più approfondito
poi da parte di questi due Autori ha messo in evidenza anche le relazioni
che esistono tra strutture motorie sottocorticali e centri di integrazione
delle emozioni cioè dell'ipotalamo. Qui la dimensione affettiva
e psichica appariva direttamente collegata al corpo, alla sensorialità,
al tono, alla motricità e si ricollegava a tutti quei dati sull'inconscio
che ci venivano forniti dalla psicoanalisi. Questa organizzazione, che
possiamo definire "tonico-emozionale", gettava un primo ponte
robusto tra il corpo e lo spirito, almeno nella sua dimensione affettiva,
ed era riconoscibile come base per tutti i metodi di rilassamento e per
tutti i tentativi di spiegazione delle pratiche orientali, molto lontane
dal nostro modo di pensare.
Tra le altre "scuole psicomotorie" che si sono diffuse anche in Italia,
ricordiamo la "Psicocinetica" di Jean Le Boulch indirizzata ai bambini
fino ai 12 anni. Il suo metodo, attraverso il quale intende superare il
dualismo mente-corpo, ancora troppo presente nelle metodologie utilizzate
nell'educazione fisica anche ai nostri giorni, è legato a un concetto
di pedagogia attiva basato sulla visione unitaria della persona e che
utilizza la dinamica del lavoro di gruppo.
Pierre Vayer invece, insieme a Luis Picq, pubblica il primo testo sulla
psicomotricità per le Edizioni Armando : "Educazione psicomotoria
e ritardo mentale". E' un testo rivolto all'educazione dei bambini
handicappati e quindi utilizzato soprattutto dagli insegnanti di scuola
speciale. Resta comunque il primo libro edito in Italia che parla di educazione
psicomotoria. Vayer sostiene un'azione educativa e un contesto formativo
concepiti in funzione del bambino e rapportati all'età e ai bisogni
tipici di quella età. Giudicando fondamentale l'osservazione del
comportamento dinamico del bambino ideò insieme a Picq un famoso
"esame psicomotorio" volto a definire un profilo del bambino
in un determinato momento della vita.
La concezione attuale della psicomotricità è il risultato
di questa lunga evoluzione che trae origine dalla pratica pedagogica ma
anche dalle diverse correnti di pensiero che caratterizzano le concezioni
europee sul corpo e il movimento e la loro utilizzazione a fini educativi
e terapeutici.
Il dualismo di Cartesio tra res cogitans e res extensa, la separazione
netta tra materia e mente, tra cose e coscienza, tra soggetto e oggetto,
ha condizionato il pensiero di generazioni di filosofi e condiziona ancora
molto. L'aver posto il problema del dualismo mente-corpo ha aperto un
dibattito plurisecolare; l'impossibilità di pervenire ad una soluzione
accettabile e non confutabile nell'ambito della filosofia tradizionale,
ha finito col dare preminenza allo spirito forzandone anche lo sganciamento
dalla realtà corporea, condizionando anche le nostre concezioni
pedagogiche. A scuola si "faceva l'uomo" durante l'ora di ginnastica
o nelle ore passate sui banchi? In genere il fare l'uomo era più
legato alla mente e allo spirito, piuttosto che al corpo.
Tutto ciò ha generato una pedagogia con marcate caratteristiche
di intellettualismo, di verbalismo, di astrazione e una concezione di
questo tipo dell'educazione non poteva che concedere spazi secondari alla
sfera del corpo.
Era necessario qualcosa di diverso per cambiare le cose, come per esempio
il progredire generale delle scienze umane e, più in particolare,
i progressi della medicina psicosomatica, della neurofisiologia, dell'etologia.
Era necessario tutto questo perché si evidenziasse quanto fosse
illusorio pretendere di formare complessivamente un essere umano disinteressandosi
del suo corpo. Gli studi della neuropsicologia impostano e determinano
a livello scientifico il superamento di quei confini fittizi tra psiche
e soma.
In conclusione: il pensiero psicomotorio tenta di riunificare l'essere
umano in un corpo-mente, corpo-spirito in relazione dialettica. E' stato
necessario superare numerose tappe per liberarsi da questo schema dualista
di psiche e soma e forse, pur essendo riusciti a scorgere più da
vicino l'unità dell'essere, resta ancora molto da scoprire.
Nello stesso periodo emergevano altre correnti di pensiero che tendevano
a mettere in risalto e a sottolineare il legame che esisteva tra corpo
e intelligenza, tra corpo e sviluppo cognitivo. Ci riferiamo agli studi
di Henry Wallon e Jean Piaget soprattutto. Si parla poco degli studi di
Piaget sui legami tra corpo e affettività ma questi esistono: il
discorso piagetiano preponderante giunto a noi è stato quello delle
tappe dello sviluppo cognitivo. Una concezione cognitiva del rapporto
con il corpo ha portato ad una psicomotricità funzionale basata
sulla nozione di "corpo proprio", che parte dal suo stesso asse,
coi concetti di alto-basso, destra-sinistra, davanti-dietro, sopra-sotto,
con il tempo considerato come durata, successione, intervallo.
La concezione di corpo come riferimento spaziale avrebbe in seguito avuto
un grandissimo successo alla fine degli anni '70 - inizio anni '80.
In Italia, negli anni '70, la psicomotricità incominciò a diffondersi e penso che oggi si sia arrivati, per effetto degli studi e delle ricerche cliniche, ad un riconoscimento della validità della psicomotricità e a una definizione dei suoi ambiti di intervento. Sono sorte molte Scuole di specializzazione e gli operatori usciti da queste scuole lavorano nei Servizi Materno Infantili delle AUSL, in Centri specialistici o – su progetti – negli asili-nido, nelle scuole materne ed elementari.
Note tratte da "Appunti per una storia della psicomotricità"
di Ruggero Toni, pedagogista.
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