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Ultimo aggiornamento: 24 Maggio 2015
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L’OSSERVAZIONE DEL GIOCO PSICOMOTORIO A SCUOLA
Franca Giovanardi e Mara Tagliavini


La ricerca sul tipo di osservazione da utilizzare con i bambini in Pratica Psicomotoria ha preso l’avvio dalla riflessione sui principi teorici e i riferimenti epistemologici della stessa. Non è stato semplice individuarli; la difficoltà è collegabile a nostro avviso anche al fatto che la Psicomotricità, disciplina storicamente giovane, è nata dall’incontro tra discipline diverse, quindi, come sempre accade quando si apre un nuovo terreno di ricerca, gli orientamenti sono molteplici e non sempre concordanti tra loro.

Da molti anni noi psicomotricisti ricerchiamo le connessioni, lavoro che continua tuttora e che riteniamo particolarmente utile non solo per la ricerca epistemologica ma anche per l’oggetto di studio della psicomotricità, e cioè la globalità della persona considerata nella sua interezza; ricerca che muove dai riferimenti teorici generali alla situazione pratica del qui ed ora dell’osservazione. La Psicomotricità ha preso su di sé il compito, un po’ ambizioso, di riunificare ciò che la scienza aveva frammentato e diviso, ponendosi l’obiettivo di connettere la corporeità, l’affettività, l’intelligenza e la socialità della persona; aspetti che erano e sono in gran parte ancora oggi domini separati di discipline diverse.

La metodologia che utilizziamo ha le caratteristiche dell’osservazione diretta e partecipante. Infatti avviene alla presenza del bambino con cui si interagisce; si tratta quindi di un’osservazione interattiva.
Prima di parlare di cosa osservare è necessario riflettere sul come osservare, perché l’osservazione diretta e partecipante non indica soltanto la partecipazione a livello dell’agire ma anche una disposizione emotiva interiore di ricettività, di ascolto di tutto ciò che proviene dall’altro; si tratta di fare posto dentro di sé all’oggetto, di accoglierlo e contenerlo.
Ricettività è un’attitudine simile alla capacità di rêverie di cui parla Bion a proposito della madre, la capacità di avere una relazione profonda col bambino, accettandone le identificazioni proiettive, indipendentemente dal fatto che il bambino le avverta come buone o cattive.
Ricettività intesa come capacità di silenzio e di ascolto, come spazio per accogliere e contenere l’oggetto osservato nella sua interezza, sfuggendo uno dei rischi maggiori dell’osservazione, che è quello di vedere soltanto delle parti, dei settori, e non la persona tutta intera, nella sua unità.
Abbiamo scelto un tipo di osservazione con queste caratteristiche perché ci sembra particolarmente coerente con i principi di fondo della Pratica Psicomotoria che fanno riferimento proprio ai concetti di unità e globalità della persona. Questo non deve far pensare che si rimanga in una situazione indistinta, è infatti necessario saper analizzare e sintetizzare, ma sempre con l’attenzione rivolta alla totalità della persona e non solo, ad esempio, alle sue competenze.
Osservare da questa prospettiva presuppone la disposizione ad osservare con tutta la nostra persona, quindi non solo con le nostre conoscenze, ma disponibili all’incontro con l’altro anche a livello tonico ed emozionale; questa è una caratteristica peculiare della psicomotricità che la differenzia da altre discipline.
Non a caso in Pratica Psicomotoria si parla di risonanza tonico emozionale, proprio a significare la messa in gioco dell’adulto nella relazione col bambino, alla ricerca continua della cosiddetta giusta distanza, che sta ad indicare un movimento interno di avvicinamento e allontanamento emotivo, che permetta di cogliere quegli aspetti di molteplicità peculiari dell’incontro con l’altro.
Possiamo forse dire che è privilegio dello psicomotricista poter tradurre questo concetto anche a livello corporeo, in quel gioco di aggiustamento tonico, posturale e spaziale con il bambino, che caratterizza la nostra attività e in particolare la nostra modalità di relazione.
Per gli educatori di asilo nido e gli insegnanti di scuola dell’infanzia si tratta di sviluppare la capacità di cogliere il processo evolutivo del bambino, la sua spinta a crescere, per potersi alleare con le parti del mondo interno disposte a maturare, elaborando quella funzione di contenitore dei bisogni e della comunicazione, così utile nei contesti in cui si sviluppano relazioni interpersonali. Si tratta inoltre di garantire al bambino un suo spazio d’azione.

Uno dei quesiti più frequenti che vengono sollevati a proposito dell’osservazione riguarda la questione dell’oggettività. Pensiamo che chi osserva non sia e non possa essere un registratore indifferente agli eventi, ma una persona dotata di emozioni, sentimenti, conoscenze che necessariamente entrano a far parte dell’esperienza osservativa, la quale avviene tramite attività di percezione, intuizione, introspezione.
Chi osserva dovrebbe essere consapevole che la sua soggettività costituisce il sottofondo della percezione dell’oggetto, ma non può per questo, se vuole conoscerlo, ridurre l’oggetto a sé, annetterlo ai suoi desideri o a ciò che vorrebbe che esso fosse. La comunicazione tra insegnante e bambino avviene a livello conscio ma anche a livello inconscio e sappiamo che quest’ultimo può suscitare una certa dose di angoscia.
Come argomenta Devereux, l’obiettivo da porsi non è quello di eliminarla mettendo in atto numerosi e sofisticati meccanismi difensivi, ma quello di utilizzare anche il nostro mondo interno per procedere nel cammino verso la conoscenza e l’incontro con l’altro. La soggettività di chi osserva non è dunque un fastidioso contrattempo di cui disfarsi, qualcosa da negare, in quanto “l’osservatore può osservare l’altro solo osservando se stesso. Anzi, solo se osserva in un certo modo se stesso, vede l’altro”.

L’osservazione si attua in modi diversi secondo gli scopi e in base al contesto.
Relativamente agli scopi, che pensiamo possano essere comuni a tutti, distinguiamo un’osservazione iniziale e un’osservazione in itinere. Nel primo caso osserviamo un bambino che vediamo per la prima volta all’interno di un gruppo di bambini. L’osservazione iniziale , oltre a fornirci elementi di conoscenza del mondo interno del bambino, ci permette anche di intravvedere le sue possibilità di evoluzione. Ci permette infine di fare un progetto di lavoro per quel bambino, corrispondente ai suoi bisogni.
L’osservazione in itinere è invece un processo che continua per l’intero anno scolastico e permette all’educatore di modulare costantemente il suo intervento, aggiustandolo in funzione del percorso e dell’evoluzione del bambino stesso. L’attività di osservazione in itinere è quindi parte integrante dell’agire dell’insegnante perché gli permette di riformulare costantemente il suo progetto.

Per l’insegnante può avere un senso anche ascoltare la “storia” del bambino narrata da altri prima di cominciare l’attività scolastica. Conoscere la sua storia infatti, può essere di aiuto nel predisporre quanto è necessario per accoglierlo nei primi giorni.
Il “racconto” del bambino che proviene dai genitori, dagli educatori o da chi comunque lo conosce (psicologo, logopedista, ecc), può essere utile, soprattutto se c’è molta attenzione a non lasciarsi prendere dalle immagini che altri ci offrono. Sono le loro immagini, è la loro narrazione, è quello che altri vedono della sua storia. Non si tratta quindi di sostituire ma di connettere il racconto di altri con le nostre osservazioni.

Il bambino e i genitori vengono di solito accolti nell’atrio, uno spazio sul quale soffermarsi, che riteniamo piuttosto importante e che fa già parte del processo di osservazione. L’atrio infatti è lo spazio d’accesso a luoghi interni, è lo spazio intermedio tra la sezione e l’esterno, tra il dentro e il fuori; è luogo di conoscenza, di incontro, di attesa, di preparazione, luogo di intimità (il bambino si spoglia e si riveste) e, soprattutto, luogo di saluti. Nell’atrio si possono fare molte osservazioni sulle modalità con cui avviene la separazione tra bambini e genitori e il ricongiungimento fra loro a fine giornata.

L’osservazione vera e propria avviene all’interno della sezione o degli spazi, anche esterni, del nido e della scuola materna, spazi pensati per il bambino, in cui egli possa esprimersi in un’area di sicurezza.
Per poter osservare il gioco psicomotorio del bambino sarebbe utile che nella scuola o nella sezione fosse allestito uno spazio adatto, abbastanza ampio e luminoso, con un pavimento “caldo” su cui i bambini possano stare anche a piedi nudi, con un grande specchio a parete. Gli arredi potrebbero prevedere una piccola struttura per arrampicarsi, scivolare e saltare, materassi e cuscini di varie dimensioni e colori, oggetti che si prestano a molte possibilità di gioco: gioco sensomotorio, presimbolico e simbolico.

Lo spazio che accoglie il bambino non dovrebbe essere uno sfondo neutro ma significante. E’ importante che gli arredi e gli oggetti siano organizzati in modo tale da far sì che il bambino percepisca subito che il luogo è per lui, che ha la possibilità di scegliere dove andare, cosa fare. Lo spazio viene investito di senso, “semantizzato” dall’azione del bambino. Giocando spontaneamente infatti il bambino entra in contatto con i suoi desideri più profondi: mette in scena la sua storia affettiva nel qui ed ora di una storia di cui è protagonista. Possiamo pensare infatti che le origini dell’immaginario e della capacità di simbolizzare siano corporee e provengano dalle esperienze più antiche del bambino, dall’alternanza di vissuti di piacere e di non-piacere, di benessere e malessere che il bambino ha vissuto nel rapporto con la madre.
Osservando come il bambino organizza i suoi giochi possiamo pensare a quali sono le immagini, i ricordi che ci stanno dietro.

L’osservazione del gioco psicomotorio del bambino si basa su parametri precisi che si rifanno alle categorie tipiche della comunicazione non verbale, si riferiscono a relazioni: la relazione del bambino con lo spazio, il tempo, gli oggetti e gli altri. Il bambino, soggetto delle relazioni, viene osservato nella sua espressività motoria, cioè nel modo tutto originale che ha di essere al mondo, di essere se stesso, di esprimere ciò che sta vivendo nel qui ed ora e allo stesso tempo di raccontare la sua storia arcaica.

(Articolo pubblicato su I Quaderni del Gioco Psicomotorio, vol. II, a cura di Fabiola Crudeli - Forlimpopoli)


NOTE SULL'EVOLUZIONE DEL CONCETTO DI PSICOMOTRICITA'

Il termine psicomotricità è un neologismo che assume il suo pieno significato solo in tempi che si possono definire storicamente recenti. La psicomotricità infatti è giovane. La prima apparizione del termine in forma aggettivata, cioè il termine "psicomotorio", si fa risalire intorno al 1870 per dare un nome a delle regioni della corteccia cerebrale vicine alle aree propriamente definite motorie, laddove si ipotizzava avvenisse l'unione, ancora piuttosto misteriosa, tra il movimento e l'immagine mentale.
In seguito il termine "psicomotorio" vide crescere la sua fortuna soltanto intorno al 1900 quando Tissié enunciò la sua concezione di educazione fisica collegandola a quei concetti che erano stati scoperti in precedenza. Tissié avviò i suoi studi e le sue ricerche partendo da una critica alla ginnastica che veniva proposta alla fine del 1800, seguendo un progetto educativo che a quei tempi volle il suo governo e che era realizzato da un colonnello.
E' facile immaginare anche di quale ginnastica si trattasse: era assolutamente finalizzata all'irrobustimento muscolare, alla prestanza fisica, alla forza e alla formazione del carattere e utilizzava un metodo che era definito con due aggettivi: "atletico e acrobatico". Tissié a quel tempo, ebbe il grande merito di affermare la necessità di abbandonare questo modello di educazione fisica, di tipo militare, per seguirne uno più scientifico. Il suo progetto pedagogico si fondava sul principio del rapporto intimo che esiste tra pensiero e movimento, per effetto dei legami che uniscono cervello e muscoli.

Nella prima metà del '900 Guilmain trasferì sul piano educativo le idee di Dupré e Wallon, relativamente alle concordanze che esistono tra motricità e intelligenza e motricità e carattere.
Già da allora Guilmain ideò un vero e proprio metodo rieducativo, i cui obiettivi erano di rieducare l'attività tonica, cioè l'attività del tono muscolare, quindi le posture, l'equilibrio, la mimica facciale. Uno dei principi su cui si basava questo metodo era stimolare l'attività di relazione tramite il gioco.
Questa era la grande novità: nessuno ancora aveva mai pensato a far ginnastica per stimolare delle relazioni, per poi sviluppare la padronanza motoria. Il suo metodo oggi è criticabile ma resta comunque il primo modello di intervento determinato, con obiettivi e finalità specifici.

Nel periodo tra il secondo dopoguerra e i primi anni '70 un notevolissimo impulso alle pratiche psicomotorie venne dato da un grande neuropsichiatra: Julien de Ajuriaguerra, soprattutto in ambito terapeutico. Il suo "Manuale di psichiatria del bambino" un testo validissimo ancor oggi, è un'opera teorico - metodologica che costituisce la prima "carta" della psicomotricità o più propriamente della "terapia psicomotoria". In quest'opera Ajuriaguerra sostiene che la sindrome psicomotoria non va considerata in corrispondenza ad una lesione cerebrale ma legata, ecco la grande novità, all'affettività e al soma allo stesso tempo. Quindi Ajuriaguerra, proclama già l'unità psicosomatica prendendo in esame la persona tutta intera, nella sua completezza di psiche e corpo. Afferma inoltre che la strutturazione del movimento e della tonicità avvengono attraverso rapporti molteplici con implicazioni senso-percettive e affettive, insistendo inoltre sul ruolo della funzione tonica e motoria nelle attività di relazione.
Dal 1970 ad oggi, in questo breve ma fondamentale periodo per la psicomotricità, si assiste ad un ampliamento dei riferimenti scientifico - culturali che stanno alla base di questa disciplina. La teoria psicomotoria fa sempre più riferimento alla psicologia, alla psicoanalisi, all'etologia e ai numerosissimi studi sulla comunicazione non verbale. Questo interesse crescente verso altre discipline fa sì che la psicomotricità integri apporti provenienti da quelle stesse discipline. In questo periodo nascono, si rafforzano e si definiscono molte pratiche psicomotorie educative.

La Francia è la culla della psicomotricità. In Francia la psicomotricità si è espressa attraverso diverse "scuole", come quella di Aucouturier, Lapierre, Vayer, Le Boulch, per citarne alcune.
Bernard Aucouturier e André Lapierre - che hanno lavorato e scritto insieme negli anni "70 e che da molto tempo lavorano autonomamente, hanno dato origine a due diverse scuole psicomotorie, le più note e le più introdotte anche in Italia. Bernard Aucouturier ha ideato la "Pratica"Psicomotoria"i cui fondamenti teorico-pratici sono esplicitati nel suo testo di recente pubblicazione "Il metodo Aucouturier – Fantasmi d'azione e Pratica Psicomotoria"
Per quanto riguarda un approfondimento del pensiero di Lapierre si rinvia alla lettura del testo "Dalla Psicomotricità relazionale all'analisi corporea della relazione"

La iniziale concezione psicomotoria di questi due importanti Autori parte da un corpo organico e meccanico composto di ossa, muscoli, leve ossee, al quale si chiede soltanto un funzionamento corretto e un rendimento fisico ottimale. Era il concetto di base dell'educazione fisica e sportiva e, soprattutto, purtroppo, della concezione medica.
Il corpo anatomico, dicevamo; su questa meccanica corporea si agiva con mezzi altrettanto meccanici. Questo modo di pensare viene spinto fino al limite da certe costruzioni razionali della ginnastica correttiva e ortopedica. E' stato lavorando proprio in quel campo che Aucouturier e Lapierre si sono resi conto che la meccanica umana aveva anche altre dimensioni, se non altro quella neuromotoria. Approfondendo le loro conoscenze nel settore della neuromotricità hanno scoperto per esempio l'importanza dei centri sottocorticali.
Lo spirito, la coscienza, cominciavano a perdere la loro onnipotenza sul corpo. Questo corpo aveva una sua organizzazione che interveniva e interagiva in modo importante con tutto il resto. Uno studio più approfondito poi da parte di questi due Autori ha messo in evidenza anche le relazioni che esistono tra strutture motorie sottocorticali e centri di integrazione delle emozioni cioè dell'ipotalamo. Qui la dimensione affettiva e psichica appariva direttamente collegata al corpo, alla sensorialità, al tono, alla motricità e si ricollegava a tutti quei dati sull'inconscio che ci venivano forniti dalla psicoanalisi. Questa organizzazione, che possiamo definire "tonico-emozionale", gettava un primo ponte robusto tra il corpo e lo spirito, almeno nella sua dimensione affettiva, ed era riconoscibile come base per tutti i metodi di rilassamento e per tutti i tentativi di spiegazione delle pratiche orientali, molto lontane dal nostro modo di pensare.

Tra le altre "scuole psicomotorie" che si sono diffuse anche in Italia, ricordiamo la "Psicocinetica" di Jean Le Boulch indirizzata ai bambini fino ai 12 anni. Il suo metodo, attraverso il quale intende superare il dualismo mente-corpo, ancora troppo presente nelle metodologie utilizzate nell'educazione fisica anche ai nostri giorni, è legato a un concetto di pedagogia attiva basato sulla visione unitaria della persona e che utilizza la dinamica del lavoro di gruppo.

Pierre Vayer invece, insieme a Luis Picq, pubblica il primo testo sulla psicomotricità per le Edizioni Armando : "Educazione psicomotoria e ritardo mentale". E' un testo rivolto all'educazione dei bambini handicappati e quindi utilizzato soprattutto dagli insegnanti di scuola speciale. Resta comunque il primo libro edito in Italia che parla di educazione psicomotoria. Vayer sostiene un'azione educativa e un contesto formativo concepiti in funzione del bambino e rapportati all'età e ai bisogni tipici di quella età. Giudicando fondamentale l'osservazione del comportamento dinamico del bambino ideò insieme a Picq un famoso "esame psicomotorio" volto a definire un profilo del bambino in un determinato momento della vita.
La concezione attuale della psicomotricità è il risultato di questa lunga evoluzione che trae origine dalla pratica pedagogica ma anche dalle diverse correnti di pensiero che caratterizzano le concezioni europee sul corpo e il movimento e la loro utilizzazione a fini educativi e terapeutici.

Il dualismo di Cartesio tra res cogitans e res extensa, la separazione netta tra materia e mente, tra cose e coscienza, tra soggetto e oggetto, ha condizionato il pensiero di generazioni di filosofi e condiziona ancora molto. L'aver posto il problema del dualismo mente-corpo ha aperto un dibattito plurisecolare; l'impossibilità di pervenire ad una soluzione accettabile e non confutabile nell'ambito della filosofia tradizionale, ha finito col dare preminenza allo spirito forzandone anche lo sganciamento dalla realtà corporea, condizionando anche le nostre concezioni pedagogiche. A scuola si "faceva l'uomo" durante l'ora di ginnastica o nelle ore passate sui banchi? In genere il fare l'uomo era più legato alla mente e allo spirito, piuttosto che al corpo.
Tutto ciò ha generato una pedagogia con marcate caratteristiche di intellettualismo, di verbalismo, di astrazione e una concezione di questo tipo dell'educazione non poteva che concedere spazi secondari alla sfera del corpo.
Era necessario qualcosa di diverso per cambiare le cose, come per esempio il progredire generale delle scienze umane e, più in particolare, i progressi della medicina psicosomatica, della neurofisiologia, dell'etologia. Era necessario tutto questo perché si evidenziasse quanto fosse illusorio pretendere di formare complessivamente un essere umano disinteressandosi del suo corpo. Gli studi della neuropsicologia impostano e determinano a livello scientifico il superamento di quei confini fittizi tra psiche e soma.
In conclusione: il pensiero psicomotorio tenta di riunificare l'essere umano in un corpo-mente, corpo-spirito in relazione dialettica. E' stato necessario superare numerose tappe per liberarsi da questo schema dualista di psiche e soma e forse, pur essendo riusciti a scorgere più da vicino l'unità dell'essere, resta ancora molto da scoprire.

Nello stesso periodo emergevano altre correnti di pensiero che tendevano a mettere in risalto e a sottolineare il legame che esisteva tra corpo e intelligenza, tra corpo e sviluppo cognitivo. Ci riferiamo agli studi di Henry Wallon e Jean Piaget soprattutto. Si parla poco degli studi di Piaget sui legami tra corpo e affettività ma questi esistono: il discorso piagetiano preponderante giunto a noi è stato quello delle tappe dello sviluppo cognitivo. Una concezione cognitiva del rapporto con il corpo ha portato ad una psicomotricità funzionale basata sulla nozione di "corpo proprio", che parte dal suo stesso asse, coi concetti di alto-basso, destra-sinistra, davanti-dietro, sopra-sotto, con il tempo considerato come durata, successione, intervallo.
La concezione di corpo come riferimento spaziale avrebbe in seguito avuto un grandissimo successo alla fine degli anni '70 - inizio anni '80.

In Italia, negli anni '70, la psicomotricità incominciò a diffondersi e penso che oggi si sia arrivati, per effetto degli studi e delle ricerche cliniche, ad un riconoscimento della validità della psicomotricità e a una definizione dei suoi ambiti di intervento. Sono sorte molte Scuole di specializzazione e gli operatori usciti da queste scuole lavorano nei Servizi Materno Infantili delle AUSL, in Centri specialistici o – su progetti – negli asili-nido, nelle scuole materne ed elementari.

Note tratte da "Appunti per una storia della psicomotricità" di Ruggero Toni, pedagogista.


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